L’artrosi è tra le più diffuse patologie che affliggono la popolazione generale.
Sia l’osso che la cartilagine sono tessuti vivi continuamente soggetti a fenomeni di usura e riparazione durante tutto l’arco della vita adulta. Quando le sollecitazioni sono eccessive, si rompe l’equilibrio e la cartilagine si consuma.
La sua frequenza aumenta progressivamente con l’aumentare dell’età e il picco di incidenza si stabilizza intorno ai 75/80 anni. Tuttavia, fattori costituzionali, traumatici o secondari ad altre patologie possono abbassare notevolmente l’età di esordio della malattia.
Fattori predisponenti sono l’età, il peso corporeo, lo stile di vita, l’attività fisica impegnativa, la familiarità.
Sintomatologia:
Tra i primi sintomi che vanno progressivamente a intensificarsi – oltre a dolore e fitte nella zona inguinale e lungo la coscia fino al ginocchio – si manifestano difficoltà a deambulare (andatura a piccoli passi), ad accavallare le gambe e a compiere movimenti anche banali, quali allacciarsi le scarpe.
In uno stadio più avanzato, è possibile evidenziare deformità ossee che comportano un accorciamento dell’arto colpito ed un blocco dell’articolazione. Inoltre, compaiono crosci articolari durante il movimento dell’anca.
Diagnosi:
La degenerazione della cartilagine in corso di osteoartrosi è caratterizzata da profonde alterazioni della superficie articolare che vanno dalla perdita parziale alla completa erosione del tessuto.
Nelle fasi precoci della malattia può essere utile effettuare una risonanza magnetica che mostra le alterazioni della cartilagine. Nelle fasi più avanzate, la radiologia tradizionale fornisce le informazioni migliori per lo studio della patologia.
Segni radiologici dell’artrosi sono la riduzione della rima articolare, la sclerosi dell’osso subcondrale, ovvero l’ispessimento del tessuto osseo sottostante la cartilagine, la presenza di cavità ossee denominate geodi, la formazione di sporgenze ossee dette osteofiti, come tentativo dell’organismo di ampliare la superficie articolare per opporsi alla instabilità articolare.
Terapia Chirurgica: protesi totale dell’anca
Nel caso in cui fosse necessario intervenire chirurgicamente l’obiettivo è quello di:
– Attenuare il dolore
– Recuperare la funzionalità e mobilità articolare
– Garantire la longevità dell’impianto
Gli interventi di protesi totale di anca sono destinati ad aumentare con il passare del tempo in quanto sono considerati, a tutt’oggi, uno degli interventi di chirurgia ortopedica di maggior soddisfazione per il paziente e per il chirurgo.
Circa il 90% delle protesi evidenziano una sopravvivenza a 15 anni e molti dei pazienti mantengono un risultato clinico più che soddisfacente nel tempo con un tasso di complicazioni che si verifica intorno al 1% dei casi.
Tra le complicazioni è possibile citare la mobilizzazione dell’impianto, l’instabilità, le infezioni, le fratture periprotesiche, il tromboembolismo venoso, lesioni vascolari e neurologiche.
La mobilizzazione è lo scollamento di una o più componenti protesiche (cementate e non) dal tessuto osseo che le accoglie. È un processo che si verifica dopo alcuni anni di vita dell’impianto ed è causato dalla reazione dell’organismo alla produzione di detriti dovuta alla progressiva usura dei materiali utilizzati.
Oggi, per fortuna, con la produzione di nuovi e più accurati materiali, (ceramiche, polietileni altamente reticolati con aggiunta di antiossidanti come la vit E1) il tasso di usura e, di conseguenza, di mobilizzazioni dell’impianto, si è ridotto notevolmente.
Molto raramente può avvenire la rottura di una componente protesica. I fattori che si ritiene abbiano un ruolo primario nella durata dell’impianto sono una corretta selezione del paziente, la qualità dei materiali, un corretto posizionamento della protesi.
Esistono diversi tipi di protesi, più o meno conservative. Quando possibile, conviene proteggere il patrimonio osseo, per poter reintervenire più agevolmente, in futuro. In questa ottica, nascono gli steli più corti (meno invasivi) come le protesi di rivestimento ed a conservazione del collo.
Tuttavia, le protesi mininvasive, consentono di preservare solo osso femorale (meno utile) e non sul versante acetabolare (anatomicamente più povero di tessuto osseo valido per una revisione della protesi).